L'opera, intitolata "SUI FONDAMENTI DEL
DIRITTO" di Valentino De Nardo, edita dalla CEDAM, inizia dall'analisi
delle varie sfere di autonomia, normativa o non, sia privata che pubblica,
inquadrandole nell'unitario ordinamento giuridico (unicità
del diritto oggettivo).
Indi, nell'ambito dell'autonomia privata si pone in rilievo
la figura centrale del contratto, espressione di autonomia normativa (contrattuale),
rispetto a quella più generale del negozio giuridico, quale forma
elementare di accordo, basata sulla fusione dello scopo (o causa ) delle
parti in un'unica volontà comune, nonchè la natura
di accordo anche della delibera ( atto collegiale o atto collettivo),
in cui esso si esprime o con la concorde volontà di più
soggetti o comunque con il principio maggioritario. Infatti anche in tal
caso si forma, nonostante la pluralità di persone, una volontà
unica, che è quella della maggioranza, espressa a norma di legge,
di regolamento o di statuto nell'assemblea. Difatti le volontà
dei singoli componenti si fondono, perchè, pur rappresentando -direttamente
od indirettamente- interessi diversi, sono dirette allo scopo comune di
esprimere -attraverso il principio maggioritario, previamente da tutti
accettato- la volontà dell'ente o del gruppo, di cui fanno parte.
Il negozio giuridico, invero, di per sè non esprime ancora l'idea
dell'accordo (potendo essere unilaterale o bi-o pluri- laterale),
e cioè dell'autonomia privata vera e propria (ossia esterna
alla propria sfera giuridica e quindi intersoggettiva). Infatti, come
sostiene anche il Bianca, l'idea stessa dell'autonomia esclude
che il soggetto possa disporre della sfera altrui senza il suo consenso
(anche semplicemente sotto forma di non-rifiuto), in considerazione dell'esigenza
del rispetto della sfera giuridica dei terzi.
Si evidenzia, poi, il ruolo fondamentale della causa nell'ambito
del negozio giuridico in generale e del contratto in particolare, ove
essa rappresenta suo requisito essenziale ( scopo comune delle parti,
lecito e meritevole di tutela; parametro quest'ultimo presunto esistente,
salvo prova contraria, nel caso di contratti tipici ), che unitamente
alla natura disponibile dei diritti ( patrimoniali ) disciplinati, fonda
la sua natura normativa, sia pure particolare e concreta. Infatti, i caratteri
della generalità e astrattezza sono solo caratteri empirici ma
non dogmatici della norma giuridica, in quanto la cogenza, l'imperatività
e la novità della singola norma contrattuale (affidata all'autonomia
contrattuale, ossia all'accordo concluso direttamente dalle stesse parti)
sono uguali a quelle della norma generale ed astratta (legge od altro
atto di autonomia normativa pubblica, ossia all'accordo concluso
indirettamente dai membri di una collettività tramite i loro rappresentanti).
La causa offre, altresì, un criterio sicuro per determinare il
significato e la portata sia del contratto e del negozio privatistico
in genere, sia dell'atto amministrativo (espressione di autonomia
pubblica non normativa, in quanto esecutivo della legge ), nonchè
la loro aderenza ai fini, rispettivamente, di utilità sociale e
pubblici, richiesti dall'ordinamento, con l'effetto di condizionarne
la validità (totale o parziale ) o di operarne la conversione in
altro atto similare.
Inoltre, nell'atto amministrativo essa ha la funzione di assicurarne
l'effettiva rispondenza al fine concreto di interesse pubblico voluto
dall'ordinamento (c.d. merito ). Nell'attività amm.va
ed esecutiva in genere il concetto di causa deve, invero, riferirsi all'atto
posto in essere (e non semplicemente al potere amm.vo esercitato), correlando
la causa tipica del potere esercitato con il merito dell'atto, per
individuare la vera causa di interesse pubblico concreto, che esso deve
possedere, anche ai sensi dell'art. 97 Cost.. A tal uopo, sarebbe
necessario generalizzare il controllo di merito (salvo necessarie e rare
eccezioni) degli atti amm.vi, per consentire un controllo sostanziale
(appunto di merito) e non solo di legittimità (spesso solo formale)
degli atti medesimi circa la loro effettiva aderenza ai fini perseguiti.
L'attività amm.va non è, infatti, attività normativa,
ma esecutiva della legge e non affidata perciò alla potestà
normativa dei soggetti ed organi istituzionalmente preposti o direttamente
interessati ad emanare norme giuridiche (come nell'attività
legislativa e nell'autonomia contrattuale).
Nell'accordo pubblicistico normativo, interno ( legge ) o internazionale
( trattato ), la causa ha invece più limitati effetti a fini interpretativi
e di controllo politico dell'atto.
In conclusione, la causa o scopo (quale volontà diretta ad un risultato:
causalità umana o programmata) è rilevante in ogni attività
umana (in quanto essenzialmente finalistica e non solo istintiva) e quindi
maggiormente in quella intersoggettiva e cioè giuridica, perchè
diretta a contemperare (ragionatamente e pacificamente) interessi di soggetti
diversi fra loro interferenti. Essa, infatti, è presente in ogni
attività umana e può risultare, sia espressamente che implicitamente
dall'atto, anche al fine di distinguere atti fra loro obiettivamente
simili. Solo che in taluni casi questi scopi ed i relativi effetti - per
soddisfare esigenze superiori - sono predeterminati dall'ordinamento
(atti e negozi giuridici tipici, atti amministrativi vincolati ed atti
giurisdizionali), mentre in altri sono affidati alla libertà o
alla discrezionalità dei soggetti agenti, in sfere di autonomia
di diversa ampiezza: a) il negozio giuridico privatistico (autonomia privata)
ed il provvedimento amministrativo (autonomia pubblica non normativa o
potestà pubblica discrezionale), i quali si svolgono nell'ambito
della sfera giuridica riconosciuta ai soggetti agenti da norme giuridiche
preesistenti, e b) il contratto (autonomia normativa concreta o contrattuale)
e la legge in senso lato (potere legislativo o autonomia normativa pubblica,
solitamente generale ed astratta), i quali consistono invece nella potestà
di creare - tramite accordo o volontà comune o collegiale - norme
giuridiche, cioè esterne alle sfere giuridiche dei soggetti, che
le hanno direttamente - come nel contratto - od indirettamente - come
nella legge - poste in essere.
L'opera passa, quindi, in rassegna le più importanti teorie
generali del diritto, formulando la propria teoria dell'accordo,
quale fondamento del diritto scaturente dal rapporto giuridico. Il fondamento
dell'obbligatorietà del rapporto giuridico e della norma giuridica
da esso creata risiede cioè nell'accordo, ossia nella volontà
comune (o collettiva) degli stessi destinatari delle norme, necessario
per assicurare l'esistenza, oltre che il progresso etico-sociale
della collettività organizzata, nel quadro dell'unitario ordinamento
giuridico, di cui i suoi membri fanno parte, e che parimenti concorrono
a formare, sia pure indirettamente, appunto attraverso lo strumento giuridico
dell'accordo. Infatti le norme giuridiche vengono create sempre e
solo in rapporti giuridici paritari, sia generali (leggi) che particolari
(trattati internazionali o contratti).Pertanto, si può dire che
il diritto è soprattutto forma - ossia partecipazione democratica
e paritaria degli interessati alla risoluzione dei loro conflitti: accordo
in senso lato: legge o contratto - e non sostanza o meglio contenuto -
legge giusta, diritto naturale, etc.-. Ma tale "forma" corrisponde,
in realtà, sotto il profilo etico - della vera etica, ossia dell'etica
pratica, che continuamente si adatta alla realtà umana -, alla
più alta sostanza, che è quella di far decidere liberamente
- libertà - ed in maniera paritaria- uguaglianza - gli individui,
che compongono una comunità umana, con una compartecipazione e
solidarietà di tutto il gruppo sociale - fratellanza - alla risoluzione
dei vari conflitti sociali, pubblici o privati. Si tratta dei principi
fondamentali sorti dalla rivoluzione francese, i quali esprimono il grado
più alto della cultura giuridica degli Stati occidentali, ormai
predominante in tutto il mondo dopo la caduta delle barriere fra est ed
ovest. Il diritto nasce, quindi, dall'accordo paritario e libero
nei vari conflitti sociali. Se non vi è questo, infatti, vi è
solo prevaricazione ed autoritarismo, ossia legge del più forte
e non diritto, il quale è regola superiore agli interessi del singolo,
proprio in quanto egli ha partecipato - solidarietà - alla sua
formulazione su un piano di libertà e di uguaglianza. Proprio dalla
teoria, che noi sosteniamo, per la quale l'accordo- e non l'astratta
razionalità- è il fondamento del diritto, in contrapposizione
alla forza intesa in senso lato -fisica, psichica od economica -, discende
che saranno necessariamente vietati tutti quegli atti che possano compromettere
maggiormente la vita fisica, psichica e sociale degli individui e che
si compendiano nel diritto naturale - diritti della personalità,
status personali, rapporti familiari e diritti patrimoniali fondamentali,
quali la proprietà e la libertà di iniziativa economica
privata -. Infatti, la specifica e buona regolamentazione di tali rapporti
e, quindi, la tutela dei diritti da essi nascenti sarà proprio
assicurata dall'accordo degli stessi soggetti destinatari delle relative
norme, i quali con la partecipazione alla loro formazione, faranno sì
che esse tutelino quanto meno quel minimum di diritti di ciascuno, che
i giusnaturalisti individuano nel c.d. diritto naturale. Peraltro, il
principio della certezza del diritto, che il positivismo giuridico assicura
- a differenza del diritto naturale-, riconoscendo solo nello Stato e
nelle sue leggi la fonte del diritto, non può ritenersi sufficiente
a definirne completamente la natura, occorrendo a tal fine anche l'autenticità
della norma e, quindi, del diritto. In base alla nostra teoria del libero
accordo, quale fondamento del diritto, la norma giuridica, oltre ad essere
certa -legge positiva- è anche autentica e, quindi, valida, essendo
rappresentativa della volontà popolare, ossia dei suoi destinatari;
essi, infatti, sono i soli titolari del potere giuridico- pubblico o privato-,
generalmente affidato ai loro rappresentanti in materia di diritto pubblico
o direttamente esercitato nel campo del diritto privato. La ragione della
crisi istituzionale attuale risiede, infatti, in un difetto di rappresentatività
del potere, non tanto a livello soggettivo (cioè nella mancata
corrispondenza delle persone scelte a quelle effettivamente votate dalla
maggioranza degli elettori), quanto a livello oggettivo e causale (cioè
nella difformità dei programmi, delle leggi e dei provvedimenti
in genere dagli interessi degli elettori medesimi) e, quindi, di rappresentanza
effettiva degli interessi della popolazione. Tale situazione è
stata probabilmente aggravata dall'attuale fase di rapido sviluppo
tecnologico e scientifico, che ha dato vita a grossi potentati economici,
che hanno finito per espropriare il potere troppo discrezionale delle
forze politiche, per tutelare i propri interessi economici. L'unico
rimedio valido sembra pertanto quello di introdurre il concetto di causa,
oltre che a livello contrattuale, anche a livello di provvedimento amministrativo
(cioè del merito dell'atto, quale reale rispondenza del suo
fine al risultato, che è idoneo in concreto a realizzare) e di
provvedimento legislativo (come corrispondenza dello scopo dell'atto
- ratio legis - agli interessi effettivi della popolazione, secondo un
ordine di programmi prestabiliti o di esigenze particolari dovute a situazioni
contingenti eccezionali, urgenti o sopravvenute). L'etica del diritto
-o il c.d. diritto naturale, per dirla con i giusnaturalisti- non consiste,
quindi, in una ragione o morale astratta, stratificata nella cultura storica
-etica storica- o vista in chiave critico-filosofica e, quindi, personalistica-etica
filosofica-; l'etica del diritto è, invece, l'etica pratica,
cioè l'opinione espressa dalla comunità presente nel
momento storico attuale in un determinato ordinamento giuridico- nazionale
od internazionale - circa i principi e le regole da seguire per il convivere
civile e da trasfondere, quindi, in principi e norme giuridiche attuali
-; essa è, perciò, un'etica contingente e relativa,
anche se destinata a stratificarsi e ad arricchire in un secondo momento
l'etica storica e filosofica, le quali, peraltro, abbracciano tutta
la sfera sociale - e non solo giuridica - dell'individuo. Essa, cioè,
come tale, non è preventivamente scritta, appunto perchè
deve ancora nascere e la sua fonte non può che essere la volontà
libera e concordata dei componenti della stessa comunità civile
-; pertanto viene confermato, anche da questo punto di vista, che il fondamento
del diritto risiede nel libero accordo -. Il diritto non nasce, quindi,
nè da un'autorità esterna alla società - ordine
dell'Autorità -, nè da una ragione astratta - diritto
naturale -, bensì dalla volontà popolare attraverso il libero
accordo, dando vita allo Stato democratico, unico e vero c.d. Stato di
diritto, il quale esprime, infatti, la volontà e l'etica reale
di un popolo. A tale impostazione di teoria generale si potrebbe obiettare
che il rapporto giuridico, mentre è liberamente scelto in modo
evidente, allorchè i soggetti sono su un piano di perfetta parità
- rapporti di diritto privato -, appare, invece, autoritativamente imposto,
nel caso in cui un soggetto od organo è investito di una pubblica
potestà, gode, cioè, di una posizione di supremazia - rapporti
di diritto pubblico -. Peraltro, anche nel secondo caso il rapporto, imposto
od autoritativo, risale sempre ad un precedente rapporto giuridico liberamente
scelto - accordo-, del quale è semplicemente esecutivo - provvedimento
amministrativo - od applicativo - provvedimento giurisdizionale -, anche
se, nel primo caso, entro limiti di discrezionalità - necessari
all'adattamento della norma giuridica generale ed astratta - legge
- all'attività particolare e concreta - "gestione della
cosa pubblica" - da eseguire -, ma su un piano strettamente funzionale
- potere esecutivo o amministrativo e, nel secondo caso, su un piano meramente
applicativo e vincolato - potere giurisdizionale -, ma essenziale alla
tutela giuridica e, quindi, alla giuridicità dell'ordinamento
in generale. Inoltre, tutti i rapporti giuridici sono regolati dal medesimo
ordinamento, sovrano o, comunque, indipendente, in cui essi sono destinati
ad operare: ordinamento statuale, per i rapporti giuridici, che debbono
svolgersi nell'ambito della sovranità di un solo Stato, ordinamento
internazionale o sovranazionale, per i rapporti, che debbono esplicarsi
nell'ambito del diritto internazionale.
Questa impostazione di teoria generale spiega in maniera più precisa
anche la giuridicità dell'ordinamento internazionale, che,
quale "societas inter aequales - come del resto gli attuali ordinamenti
democratici statuali per il principio di uguaglianza: v. art. 3 Cost.-,
si fonda in maniera evidente su rapporti giuridici concordati, nella specie
patti internazionali, i quali pongono anche norme generali ed astratte,
simili alle leggi statuali, e sono il presupposto di ulteriori rapporti
giuridici autoritativi, esecutivi - ad es., O.N.U., C.E.E.- od applicativi
- ad es., Corte di giustizia europea -. La giuridicità di tale
sistema viene, infatti, negata sulla base del carattere volontario dell'adesione
a queste attività esecutive o giurisdizionali, mentre sarebbe facilmente
riconosciuta in base alla teoria, che noi professiamo, risolvendosi il
fondamento del diritto nel rapporto giuridico e più precisamente
nel concordamento volontario della norma giuridica- ACCORDO -. Ciò
posto, nulla osta all'affermarsi di un ordinamento internazionale,
che persegua fini generali (politici ed economici) con un ordinamento
giuridico sovrano, sia pure in limitate materie, interessanti appunto
il diritto internazionale (ad es., la pace e la sicurezza internazionale
- fini attuali dell'O.N.U. - ed anche un equilibrato sviluppo economico
mondiale), del tutto simile ad un ordinamento statuale, partendo dallo
strumento giuridico dell'accordo, dato che su quest'ultimo si
fonda ogni sistema giuridico. Nè la sovranità dei singoli
Stati sarebbe di ostacolo all'affermarsi di una sovranità
dell'ordinamento internazionale con analoghe potestà pubbliche
rappresentative, sia perchè la medesima riguarderebbe determinate
materie (quali quelle dianzi riferite, interessanti appunto il diritto
internazionale), che non è possibile disciplinare in base al diritto
interno, sia perchè l'adesione od il recesso di ogni Stato
sovrano sarebbero del tutto volontari. La giuridicità di tale ordinamento
è, infatti, assicurata dal fatto che la sovranità appartiene
agli stessi soggetti, che ne fanno parte, i quali si autolimitano con
un libero accordo, come del resto avviene nel caso dei cittadini di ogni
singolo Stato attraverso i suoi organi, che ne hanno la rappresentanza,
essendo stati da loro eletti. Quindi, il diritto nasce dalla stessa volontà
concorde dei suoi destinatari, nel rispetto delle norme dell'unico
ordinamento giuridico, di cui essi fanno parte, e che parimenti concorrono
a formare, sia pure indirettamente, attraverso lo strumento giuridico
dell'accordo. Infatti, le norme giuridiche vengono create sempre
e solo in rapporti giuridici paritari, sia generali che particolari (accordi:
legge, trattato internazionale o contratto); soltanto che, dato che il
rapporto giuridico generale ( ad es. , la legge) pone norme generali ed
astratte, queste devono essere poi eseguite od applicate nei singoli rapporti
particolari a volte mediante provvedimenti necessariamente autoritativi
- in quanto rappresentativi della volontà collettiva - (amministrativi
o giurisdizionali), i quali tuttavia hanno natura rigorosamente funzionale
e non normativa, dovendo limitarsi ad eseguire od applicare la norma giuridica
generale ed astratta creata in un precedente rapporto giuridico generale
paritario e non autoritativo: è questo un principio essenziale
del sistema democratico, cioè che le norme giuridiche (ossia le
regole della convivenza sociale) siano poste dai loro stessi destinatari,
direttamente come nel contratto od indirettamente attraverso loro rappresentanti
come nella legge.
Proprio in base alla nostra teoria, per la quale il diritto oggettivo
(o la norma giuridica) nasce sempre dall'accordo in uno Stato di
diritto, ossia che suoi destinatari sono gli stessi suoi artefici, dimostra
altresì che è norma giuridica anche quella creata dal contratto
(che rappresenta - si potrebbe dire -, insieme al trattato internazionale,
l'accordo elementare, ossia quello fra due o più soggetti
determinati), cioè nell'ambito di una sfera di autonomia normativa
relativa a diritti patrimoniali (e quindi disponibili) e destinata come
tale ad imporsi all'esterno delle sfere giuridiche delle sue parti.
Essa non è quindi semplice norma privata: particolare e privato
è solo il rapporto giuridico intercorrente fra i singoli soggetti
determinati, che creano la norma, ma essa è norma giuridica come
tutte le altre e destinata come tale ad iscriversi nell'unico ordinamento
sovrano statuale; infatti, ad es., con la vendita di un bene io ne acquisto
la proprietà non solo di fronte al venditore, ma nei confronti
di tutti; e proprio per assicurare questa giuridicità generale
della norma, la quale evidentemente non può che riguardare la generale
validità della regola giuridica e non la generalità dei
suoi destinatari, la legge prevede le norme sulla trascrizione per gli
acquisti di maggior rilievo, ossia quelli relativi ai beni immobili ed
ai beni mobili registrati; ma anche in tal caso, pur essendo le norme
sulla trascrizione previste dal codice civile e quindi dalla legge, esse
devono essere applicate dalle parti nel singolo caso concreto, proprio
al fine di assicurare efficacia generale alla norma giuridica particolare
posta nel privato rapporto (v. art. 2643 ss., c.c.). Ciò dimostra
che i veri requisiti della norma giuridica sono solo la sua novità
(quale regola esterna - e come tale nuova - alla sfera giuridica dei soggetti,
che l'hanno direttamente o indirettamente posta in essere) e la sua
appartenenza ad un unico ordinamento sovrano o comunque indipendente,
al fine di garantirne la tutela giuridica (unicità del diritto
oggettivo). Carattere essenziale della norma giuridica è, quindi,
solo la novità e non anche la generalità e l'astrattezza,
che sono solo caratteri empirici ordinari di un tipo particolare di norma
giuridica emessa da parte di soggetti rappresentanti dei suoi destinatari
(ossia della legge, che nasce dall'incontro delle volontà
delle varie forze politiche rappresentate in Parlamento), dato che la
sovranità appartiene al popolo (art. 1 Cost.). A conferma di ciò,
si osserva che vi sono leggi - quelle c.d. meramente formali -, le quali
non hanno un ambito normativo superiore a quello di un contratto (ad es.:
una legge che accorda una pensione a favore di una persona illustre o
la norma prevista dall'art. 84 Cost., che determina l'assegno
e la dotazione del Presidente della Repubblica) o non hanno alcun valore
normativo (ad es.,la legge che dichiara un cittadino benemerito della
Patria) ed, invece, contratti - i contratti collettivi di lavoro ex art.
39 Cost., ancora inattuato - la cui efficacia normativa si estende ad
un'intera categoria di soggetti, cioè anche a coloro la cui
volontà non era nemmeno indirettamente rappresentata nella loro
stipulazione (le prime hanno una natura sostanzialmente contrattuale,
mentre i secondi legislativa). Quindi, unico carattere imprescindibile
della norma giuridica è quello della novità, ossia di dettare
una nuova regola di condotta intersoggettiva, costitutiva del diritto
oggettivo, non essendo la materia disciplinata da una normativa imperativa
preesistente, poichè in caso contrario l'attività volontaria
dei soggetti, anche se di natura negoziale, rimane soggetta a tale disciplina,
già predisposta dall'ordinamento giuridico (ad es.: atti e
negozi giuridici privatistici o provvedimenti amministrativi - anche se
discrezionali, ma pur sempre esecutivi della legge - e giurisdizionali).
Da tali premesse si deduce, inoltre, che l'atto illecito è
un atto contrario all'accordo particolare (contratto) o generale
(legge) e perciò è fuori del diritto (in senso obiettivo,
quale regola normativa vigente), anche se regolato in senso negativo (cioè
proibitivo ed impeditivo) dall'accordo medesimo. Non può pertanto
condividersi la tradizionale distinzione della dottrina degli atti giuridici
in atti leciti ed illeciti, in quanto questi ultimi sono per definizione
antigiuridici - ossia "contra ius -. Infatti, è la sanzione
l'effetto giuridico discendente dall'atto illecito; ma ad esso
la stessa è ricollegata, soltanto indirettamente, dalla norma giuridica
prodotta in precedente accordo - generale o particolare -, che appunto
qualifica antigiuridico tale atto e lo sanziona, al fine di impedirlo.
In conclusione giuridica è soltanto la norma, che prevede l'atto
illecito, il quale di per sè è soltanto un atto volontario,
contrario alla medesima (e quindi antigiuridico). Costituiscono poi fatti
illeciti ed anzi sono i maggiori di essi i c.d. fatti rivoluzionari, nell'ordinamento
interno, ed i rapporti di belligeranza, quali la rappresaglia e soprattutto
la guerra, nell'ordinamento internazionale, in quanto mirano a risolvere
con la forza (la quale è per definizione l'antitesi del diritto,
consistendo il suo fondamento nel rapporto giuridico e più precisamente
nel concordamento pacifico e volontario della norma giuridica attraverso
l'accordo) conflitti fra forze politiche all'interno di uno
stesso Stato o fra Stati diversi. Quindi l'accordo è alla
base del processo di creazione e di produzione del fenomeno giuridico,
sia quale suo fondamento scientifico-dogmatico, che quale vera e propria
fonte di produzione giuridica (sistema giuridico democratico).
Indi, nell'opera si esaminano i concetti del diritto oggettivo e
delle varie situazioni giuridiche soggettive (diritti soggettivi, doveri
giuridici e potestà, generali e particolari, pubblici o privati),
ponendo in particolare in rilievo la natura strumentale, quali poteri
funzionali, delle potestà, sia private che pubbliche, in quanto
rappresentative in questo secondo caso di diritti generali del popolo,
l'unica posizione giuridica soggettiva attiva sostanziale del diritto
soggettivo e l'inesistenza quindi ai fini dogmatici della categoria
del c.d. interesse legittimo, quale unitaria posizione giuridica soggettiva
particolare o individuale (scindendosi il medesimo nel diritto generale
formale alla legittimità in senso lato degli atti amministrativi,
appartenente alla collettività, e nel diritto particolare - perfetto
o "in itinere" - sostanziale del soggetto, sul quale il provvedimento
direttamente incide). Si rileva altresì, sempre ai fini dogmatici,
l'inesistenza della differenza fra sindacato di legittimità
e di merito (qualificando il secondo la causa concreta di pubblico interesse
dell'atto amm.vo, il quale, anche se discrezionale, è sempre
esecutivo della legge) e la risarcibilità del danno derivante dalla
lesione dei c. d. interessi legittimi, stante la loro natura di aspettative
legittime (o diritti particolari in itinere).
L'opera si conclude infine con la critica della distinzione tradizionale
fra forme e fonti di diritto oggettivo, evidenziando la figura generale
dell'accordo, sia in diritto privato che pubblico (interno od internazionale), quale essenziale ed originario strumento di produzione di nuove norme
giuridiche ( sia particolari e concrete, che generali ed astratte ) o
comunque di interferenza di un soggetto nella sfera di un altro soggetto
in relazione a rapporti già disciplinati dall'ordinamento,
essendo gli atti giuridici unilaterali solo atti preliminari o successivi
(applicativi od esecutivi ) di un precedente accordo nei diversi campi
del diritto..
- Una teoria del diritto e della giustizia -
Recensione pubblicata dal Prof. Gaetano Carcaterra sulla "Rivista Internazionale di Filosofia del Diritto", n. 4 - ottobre/dicembre 2002 (pagg. 641-648)
Non è raro, e mi pare che accada con maggior frequenza oggi rispetto a quella parte del passato che conosco, che i giuristi rivolgano l'attenzione ai temi classici della filosofia e della teoria generale del diritto. Alcuni di questi contributi sono stati accolti da questa stessa Rivista in diverse occasioni, e c'è da chiedere se non sia opportuno istituire in essa una sezione permanente destinata ad ospitare e a promuovere siffatti incontri. Un libro che a questo proposito merita una menzione è "Sui fondamenti del diritto" (Cedam, Padova 1996), opera di un magistrato, il consigliere Valentino De Nardo. Il lavoro, che fu presentato sia in un convegno tenutosi presso la Corte di Cassazione nel 1996 sia in un altro svoltosi nell'Università "La Sapienza" di Roma nel 1998, non è recentissimo, ma rimane attuale anche perché l'autore ha ribadito le tesi sostenute nel libro in una serie numerosa di congressi, fra i quali: "Ordinamento ed organi di giustizia internazionale" (Roma, 8 maggio 1999), "Corte penale internazionale" (Roma, 19 febbraio 2000), "La Costituzione europea come prodotto unitario degli Stati membri dell'Unione europea" (Roma, 14 settembre 2000), "Dalla cittadinanza europea alla costituzione dell'Europa" (Roma, 6 ottobre 2001), "La Costituzione dell'Europa ad opera della Convenzione europea sulla base della strategia dell'accordo tra le istituzioni dell'Unione" (Roma, 26 febbraio 2002).
Non si tratta di un'opera di pura filosofia o teoria del diritto, perché anzi la maggior parte del volume si occupa di argomenti di scienza giuridica strettamente positiva, privatistica, pubblicistica, internazionalistica, dal tema dell'autonomia privata e pubblica a quello delle situazioni giuridiche soggettive e delle forme o fonti giuridiche. Tuttavia in questi temi è presente un'idea, alla quale De Nardo dedica un intero capitolo, l'idea dell'accordo basato sul rapporto giuridico e assunto come fondamento del diritto in generale. Ma è proprio questo intreccio di temi positivi e di idee speculative che costituisce il tratto caratteristico del libro, testimonianza di una forma di filosofia coltivata dai giuristi non per diletto domenicale ma nel contesto e per le necessità, o per l'utilità, della loro scienza.
L'idea centrale del libro, il diritto come accordo, viene esplicitamente presentata come una tesi di teoria generale del diritto e l'autore ne trae spunto dalla concezione di Alessandro Levi. In verità, Levi ha definito il diritto come rapporto giuridico e non come accordo, ma per De Nardo l'accordo è esso stesso il rapporto giuridico per eccellenza - il rapporto giuridico, egli dice, si esprime nell'accordo - onde la sua diventa una teoria dell'accordo basato sul rapporto giuridico. De Nardo va anche oltre, perché aggiunge al concetto di accordo quale "definiens" del diritto una serie di ulteriori note, che gli sono state ispirate dalle caratteristiche dello Stato moderno improntato ai principi nati con la rivoluzione francese e maturati con i successivi sviluppi dello Stato democratico e sociale o interventista. Ne deriva la definizione del diritto in generale come azione diretta al contemperamento degli opposti interessi dei soggetti per mezzo dell'accordo, su un piano di eguaglianza, di libertà e di solidarietà garantito da elezioni democratiche a suffragio universale (v., p.e., pp. IX, 292-3, 301-2, 309-10, 314-5, 346). L'ordinamento giuridico nel suo complesso non è che un sistema piramidale di rapporti giuridici (ciò che ricorda il sistema gerarchico delle norme della teoria Kelseniana), alla cui base stanno i rapporti fra privati e nei gradi più alti rapporti via via più generali, fino al vertice costituito dal patto sociale fondamentale od istituzionale (pp. 341-2).
È evidente, e l'autore è pienamente consapevole del fatto, che in tale teoria diritto e giustizia finiscono per identificarsi: l'etica e la giustizia, egli dice, è il presupposto del diritto, cosicché, p.e., una dittatura non può qualificarsi diritto (p. 302), anzi è il diritto che forma esso stesso l'etica (p. 298), giacché la vera etica (o "minimum etico") del diritto risiede nell'accordo (pp. IX-X). Ed assunto questo punto di vista, De Nardo sottopone a valutazione critica alcune teorie alternative: la teoria imperativistica di Carnelutti, che separa l'etica dal diritto, la teoria pura di Kelsen, che legittima anche un ordinamento autoritario, la teoria istituzionalistica di Hauriou e di Santi Romano, per cui qualsiasi organizzazione sociale avrebbe carattere giuridico. De Nardo respinge anche la teoria del Barbero, che pure fa coincidere diritto e giustizia, perché - afferma - il fondamento del diritto non può essere la ragione astratta ma solo il libero accordo dei soggetti.
La teoria di De Nardo, perciò, reciproca il diritto che è il diritto che dovrebbe essere, l'essere e il dover essere del diritto, e in questo senso è una forma di giusnaturalismo (magari di giusnaturalismo contrattualistico). Forse la si potrebbe includere nella classe delle teorie del diritto naturale vigente: da un lato un diritto non è veramente tale se contrasta con i principi di giustizia, dall'altro i criteri di giustizia, che costituiscono, dice De Nardo, in c.d. diritto naturale, non possono essere considerati giuridici finché non vengano tradotti nel diritto positivo (p. VII-VIII). Teoria del diritto naturale vigente, dunque. E, storia d'oggi alla mano, si deve riconoscere anche teoria vincente in qualche misura. Perché il secolo appena trascorso, se da un lato è stato testimone di quella che Abbagnano ha chiamata la pazzia della filosofia, dall'altro ha potuto registrare un successo delle teorie della ragion pratica e soprattutto del giusnaturalismo proprio sul terreno delle realizzazioni storiche e istituzionali, a cominciare dalla Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo del 1948 per finire con la recentissima creazione della Corte penale internazionale. La Dichiarazione del '48 si sa fu ispirata dal giusnaturalismo di Maritain, ma tutto il cammino da allora intrapreso verso il riconoscimento planetario di valori etico-giuridici è stato accompagnato nella filosofia da un risveglio di motivi razionalistici e da una sorta di nostalgia del criterio dell'universalizzazione, dell'idea del "consensus omnium". Perciò il lavoro di De Nardo, intonato appunto sull'idea dell'accordo, vibra, per così dire, all'unisono con quella parte della cultura che è portatrice di questi principi che tali battaglie hanno vinto. E ciò giustifica la presenza, che è pertinenza, delle relazioni dello stesso De Nardo, nei numerosi convegni che ho sopra ricordati - sulla Corte penale internazionale, sulla Costituzione dell'Europa, ecc. - nei quali siffatti eventi si celebrano o si auspicano.
Tuttavia la teoria dell'accordo basato sul rapporto giuridico costituisce una forma di giusnaturalismo particolarmente impegnativo, nel senso che carica il concetto di diritto di una quantità di connotazioni che nel giusnaturalismo spesso mancano o sono soltanto implicite. Il giusnaturalismo, in generale, afferma: un ordinamento no è vero diritto se non è conforme a questi, a quelli o a quegli altri principi di giustizia. Quanto più ricco è l'elenco di questi requisiti etici, tanto più il dover essere e l'essere del diritto vengono sovrapposti, e tanto più impegnativa è la forma di giusnaturalismo che ne emerge. Così si possono distinguere forme minimali e massimali di giusnaturalismo. Ebbene la definizione assiologica del diritto che offre De Nardo è talmente articolata e densa di requisiti che, sebbene egli si sia riferito alla tesi del "minimum etico", la sua teoria di fatto finisce per sostenere qualcosa che è molto più vicina alla tesi, se così posso dire, del "maximum etico". Con la conseguenza che mentre le forme minimali di giusnaturalismo incontrano ormai poche resistenze persino nel campo del positivismo giuridico (basterebbe pensare al contenuto minimo del diritto naturale di Hart), la teoria di De Nardo, in quanto forma massimale, è costretta a far fronte alle classiche obiezioni rivolte alle dottrine che identificano essere e dover essere, obiezioni tanto più pressanti quanto più audace è il giusnaturalismo dell'autore.
Può essere questa una buona occasione per dire due parole in generale sulle teorie, come quella di cui qui si parla, che identificano completamente essere e dover essere del diritto, diritto e giustizia, e che chiamerò per brevità teorie assiologiche del diritto. In molti miei lavori ho difeso la possibilità di fondare, in qualche modo razionale, il dover essere sull'essere, ma la totale coincidenza delle due categorie l'ho sempre ritenuta molto meno difendibile. In ogni caso essa produce conseguenze sulle quali è necessario riflettere. Una teoria assiologica offre una definizione di ordinamento (sociale) giusto, del tipo "un ordinamento è giusto se solo ha i requisiti A, B, C, ecc.", e fa coincidere con essa la definizione di ordinamento giuridico tout court: "un ordinamento è giuridico solo se presenta gli stessi caratteri A, B, C,ecc.". Così il concetto della giustizia viene completamente identificato con il concetto generale del diritto. Quello che da ciò segue desta perplessità sia sul piano della teoria della giustizia e della giustificazione, sia sul piano della teoria generale e della filosofia del diritto.
Dal punto di vista della teoria della giustizia e della giustificazione emerge il problema di come giustificare le trasformazioni di un ordinamento giuridico. Prendiamo l'ordinamento italiano attuale, che risponde, credo , a tutti i requisiti di giuridicità e di giustizia di De Nardo, e consideriamo il caso, del resto quotidiano, che ad esso si voglia apportare una modificazione, p.e. introducendo in esso una nuova disposizione di legge. Può darsi che la modificazione proposta, poniamo un nuovo criterio di tassazione, sia già implicita in quei principi (forse nel principio di eguaglianza) che fanno del nostro un ordinamento e giuridico e giusto. In questo caso, chi propone la nuova legge può giustificarla in nome della giustizia (e della stessa salvaguardia della giuridicità): sono proprio i principi di giustizia presenti nel nostro diritto che esigono una tale legge. Ma è facile obiettare che, proprio perché la nuova norma è già contenuta nel l'ordinamento pur se in modo implicito, la proposta formale di modificazione dell'ordinamento stesso non ha in realtà ragion d'essere: esplicitare la norma è compito della giurisprudenza e della scienza giuridica, non già del legislatore. E se tutti i casi di modificazione del diritto fossero di questo genere, nessuna modificazione sarebbe necessaria.
In realtà, questo è un caso eccezionale: di solito, le disposizione che si intende introdurre e che si introducono nel diritto oggettivo sono effettivamente nuove, non contenute nei principi fondamentali nei quali, secondo la teoria dell'accordo basato sul rapporto giuridico, risiedono le condizioni che rendono giuridico e giusto un ordinamento. Senonchè, in questi casi normali in nome di che cosa il presentatore della proposta di legge può giustificarla? Per quanto ciò sembri strano, non può giustificarla in nome della giustizia, se vale la teoria assiologica. Stiamo facendo l'ipotesi che venga aggiunta nell'ordinamento giuridico una norma nuova, non contenuta nei criteri (i principi di libertà, di eguaglianza, di democrazia, di solidarietà, ecc.) che rendono secondo quella teoria, giusto e insieme giuridico l'ordinamento: quindi, ora, non si può giustificare la nuova norma facendo appello a quei criteri, dai quali la norma nel suo contenuto è indipendente; ma poiché quei criteri, in quanto fissati nelle definizione di giustizia, esauriscono tutti i criteri di giustizia, non potersi appellare ad essi significa semplicemente non potersi appellare alla giustizia. Il che non vuol dire che, dal punto di vista della teoria assiologica, ogni innovazione del diritto oggettivo sia "ingiusta", ma solo che è "non pertinente alla categoria della giustizia": il suo contenuto deve essere giustificato con parametri d'ordine diverso, p.e. in nome dell'opportunità, dell'utilità, della necessità ecc. Ciò che potrà ancora qualificarsi giusta o ingiusta sarà solo la procedura (p.e. democratica o no) attraverso la quale una tale modificazione viene attuata. In breve: data una teoria assiologica come quella prospettata, tutti i problemi di giustizia si esauriscono nella posizione dei principi fondamentali dell'ordinamento, mentre le successive trasformazioni, che non tocchino quei principi, danno luogo a questioni di giustizia solo dal punto di vista procedurale; dal punto di vista sostanziale - per quanto riguarda il loro contenuto - vanno giudicate e giustificate alla stregua di metri differenti.
Queste conseguenze a qualcuno potrebbero non apparire inaccettabili. Dopotutto, si potrebbe pensare, si tratta di una prospettiva nella quale i problemi della giustizia, con tutta la loro carica di emotività e di ideologia, vengono circoscritti a determinati momenti della vita del diritto, lasciando per il resto padroni del campo criteri forse meno controversi e meno drammatici. Ma, qualunque cosa si voglia pensare di ciò, assai più impegnative appaiono le conseguenze che una tale dottrina comporta sul piano della teoria generale e della filosofia del diritto.
Sotto questo aspetto c'è anzitutto da chiedersi se la teoria di De Nardo abbia realmente il carattere di teoria "generale" del diritto, se cioè quella che offre sia una definizione del diritto in universale o non invece di una particolare, per quanto importante, famiglia di ordinamenti giuridici. Il dubbio nasce per il fatto che, come ho detto sopra, il concetto che ne risulta è troppo ricco di determinazioni, e quando la comprensione di un concetto è ampia necessariamente si riduce la sua estensione, ossia, il campo dei fenomeni che esso denota e cerca di spiegare. Come definizione del diritto in generale, essa non consente di qualificare diritti una quantità di fenomeni che il senso comune e la storia non esitano a considerare magari ingiusti per qualche aspetto ma sicuramente giuridici, e cioè tutti gli ordinamenti nei quali è contraddetto o semplicemente no è presente anche uno solo dei valori e dei principi che, secondo quella dottrina, costituiscono il "definiens" del termine "diritto". Così non solo non sono diritti gli ordinamenti a regime dittatoriale o autoritario, ma, se si tiene presente che la definizione fa coincidere il diritto con quello dello stato sociale contemporaneo, si deve concludere che il diritto vero proprio è nato no prima di un secolo fa, e che non soltanto era priva di un autentico diritto l'antica Roma, che, forse con un po' di boria nazionale, del diritto consideriamo la culla, ma che la stessa Italia nella quale viviamo ha cominciato ad essere un ordinamento giuridico solo nel secondo dopoguerra (prima non c'era il suffragio universale). Queste esclusioni, indubbiamente macroscopiche, sono dovute al fatto che il "buon diritto" - che con una certa plausibilità si può individuare nei requisiti della democrazia, dell'uguaglianza, della libertà, della solidarietà interventistica, ecc., recenti conquiste della civiltà accidentale - è stato, con tutta la sua forza selettiva, identificato con il diritto puro e semplice.
La teoria di De Nardo ha insomma elevato a concetto universale una particolare, attuale, forma assunta dal diritto. Lo steso hanno fatto anche altre dottrine che pure hanno inteso valere come teorie generali. P.e., le teotie statualistiche del diritto hanno privilegiato nella loro definizione il fenomeno della formazione dello stato moderno. De Nardo è andato più avanti, avendo preso a modello lo stato moderno di diritto e sociale. Ma queste teorie, come "teorie generali", presentano tutte l'inconveniente di una più o meno marcata restrizione dell'ambito del diritto. Il che non soltanto produce esclusioni eclatanti, come si è visto or ora, ma non si accorda con le esigenze della conoscenza scientifica e filosofica del diritto.
Non si accorda con le esigenze della conoscenza scientifica, perché una delle auspicabili qualità di una teoria scientifica è la sua capacità esplicativa. Bobbio ha riconosciuto alla teoria istituzionalistica, col suo pluralismo giuridico, "il merito di aver allargato gli orizzonti dell'esperienza giuridica oltre i confini dello stato", nei quali l'aveva chiusa lo statualismo. Una teoria generale è scientificamente preferibile ad un'altra se riesce a sussumere sotto la propria definizione e spiegazione una quantità si fenomeni che all'altra sono sfuggiti, e cioè se offre concetti che ampliano e non riducono il suo ambito di investigazione.
D'altra parte, una restrizione dell'ambito dell'esperienza giuridica non si armonizza neppure con le esigenze della conoscenza filosofica del diritto. La filosofia del diritto, quando non sia tra quelle che Cotta ha chiamato filosofie abolizionistiche, si chiede il perché del diritto, più esattamente perché il diritto sia "ovunque" ci sia l'uomo. Il presupposto di tale interrogativo è dunque che il diritto sia un fenomeno universale nella vita e nella fenomenologia dell'uomo. Allora, circoscrivere la categoria della giuridicità in limiti così stretti da farne solo una piccola e tardiva parte dell'esperienza e della storia umana, minaccia di negare il presupposto della stessa ricerca filosofica.
Non credo perciò che la dottrina di De Nardo sia una dottrina generale del diritto se il diritto viene inteso come categoria universale. Il carattere e i meriti di essa sono altri. È una teoria generale, sì, e buona, ma di una grande famiglia di diritti oggettivi, un'analisi ed una sintesi dei valori e delle caratteristiche strutturali del diritto quale si è configurato nella cultura e nelle istituzioni dell'occidente contemporaneo. Nello stesso tempo è una ragionevole teoria della giustizia intesa appunto come accordo qualificato da un rapporto libero, paritario, solidaristico delle parti; e in questa prospettiva si trova in ottima compagnia, avendo affinità evidenti con la teoria della giustizia, anch'essa contrattualistica, di John Rawls, sebbene molto diverse siano poi le rispettive metodologie di fondazione dei lavori: evoluzionistica e attenta alla storia quella di De Nardo, di tipo logico e più astratta quella di Rawls (ci sarebbero diverse cose da dire anche in favore di una metodologia evoluzionistica, ma non è questa la sede adatta per farlo). Sia come teoria del diritto occidentale contemporaneo sia come teoria della giustizia, l'opera di De Nardo rappresenta un modella interessante soprattutto nel momento attuale, in cui dell'occidente si viene costruendo una delle più grandi istituzioni, l'Europa con la sua costituzione, e nello stesso tempo diventa sempre più urgente confrontare e in qualche modo comporre in armonia la civiltà giuridica occidentale con il mondo che sta al di là di essa.
Gaetano Carcaterra.
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Valentino De Nardo
LA TEORIA DELL'ACCORDO NEL DIRITTO INTERNAZIONALE
PER GOVERNARE LA GLOBALIZZAZIONE
Ediz. CEDAM - Padova
pagg. 187 - € 16,00
L'opera inizia dall'esposizione della teoria dell'accordo, sia nel diritto interno che internazionale, quale fondamento dello Stato di diritto e democratico, espresso dal principio maggioritario, previamente da tutti accettato, in caso di atti collettivi o collegiali. E', infatti, essenziale e connaturato alla nascita di un nuovo ordinamento giuridico comune o di un nuovo soggetto giuridico, distinto dai suoi singoli membri, l'adozione delle proprie decisioni secondo il principio maggioritario.
Il modello democratico non si fonda, pertanto, solo sulla rappresentanza popolare, attraverso elezioni a suffragio universale, e la separazione dei poteri, che permette il controllo reciproco degli organi governativi - cosicchè "il potere limita il potere", secondo la celebre frase di Montesquieu - ma anche su un terzo principio fondamentale, che anzi precede i primi due, ovvero il principio maggioritario dei suoi organi istituzionali di natura collegiale o collettiva, necessario per la nascita ed il funzionamento di ogni nuovo soggetto giuridico democratico, che possa assumere decisioni distinte dai suoi membri. Pertanto il principio della maggioranza o il principio maggioritario, non è solo un modo di formazione della volontà negli atti collegiali e, talora, in quelli collettivi, ma è innanzitutto un principio fondamentale del modello democratico.
Infatti, non è sufficiente che un governo sia eletto a suffragio universale, perchè poi i voti degli elettori sono diversi in base alle diverse scelte politiche dei candidati dei vari partiti. Occorre, quindi, che si formi una maggioranza parlamentare, sulla base del principio della maggioranza dei consensi, così come occorre che tale maggioranza, specie se formata da un governo di coalizione - come normalmente avviene - assuma le sue decisioni unitarie sulla base di un programma concordato a maggioranza.
E' necessario, quindi, un criterio oggettivo democratico, che consenta la nascita ed il funzionamento del nuovo soggetto statuale o sovranazionale e questo non può che essere individuato - sulla base della teoria dell'accordo - nel principio maggioritario, previamente accettato da tutti i membri, che hanno deciso di farne parte.
Sul piano internazionale, quindi, o si rimane sul piano della logica dei separati trattati bi o plurilaterali, con la ben nota limitazione della loro efficacia per l'inesistenza di apparati esecutivi e giurisdizionali superiori alle parti contraenti, che assicurino il rispetto dell'accordo concluso, o si crea un nuovo ordinamento giuridico comune od un nuovo soggetto giuridico, distinto dai suoi singoli membri, mediante un accordo costituente fra tutti gli Stati partecipanti, che preveda il meccanismo del voto a maggioranza per i nuovi organi comuni. E' quindi inevitabile la creazione di un nuovo Stato di diritto e democratico, anche se le forme potranno essere diverse, mediante la nascita di un nuovo Stato unitario, che sostituisca i precedenti Stati, aderenti al nuovo accordo costituente, o quella di uno Stato Confederale, con competenze limitate ad una politica estera comune, o di uno Stato federale, con le competenze comuni, sia in politica estera ed interna, attribuitegli dagli Stati aderenti, che non perdono in entrambi questi ultimi due casi la loro personalità giuridica, se in tal modo concordato.
Pertanto, sul piano del diritto internazionale, la teoria dell'accordo ( che è stata definita teoria del diritto occidentale contemporaneo e del diritto naturale vigente dalla dottrina italiana di filosofia del diritto ) consente la perfetta coesistenza di Stati nazionali democratici federati con un ordinamento sovranazionale democratico federale, proprio in quanto principio universale del diritto e fondamento giuridico del moderno Stato di diritto e democratico.
Ciò dimostra che l'accordo - nella specie sulle decisioni a maggioranza del nuovo soggetto od ordinamento giuridico comune -, sia l'elemento primigenio del diritto e, quindi, la prevalenza della teoria contrattualistica in esame, che si esprime nell'accordo, non solo sulla teoria normativa e su quella imperativistica, ma anche su quella istituzionalistica , che parte dal concetto sociologico di istituzione, perchè la norma, il comando o le istituzioni ne sono un suo prodotto e spiega perchè queste ultime possono essere plurali e diverse ( teoria della pluralità degli ordinamenti giuridici), appunto perchè nascenti da distinti accordi, i quali possono dar vita, sia a singole separate norme, che a nuove istituzioni, e dimostra, in conclusione, che l'accordo sia l'unico principio veramente unificante delle une e delle altre e possa, altresì, organizzare tali separati accordi o nuovi soggetti od ordinamenti comuni, attraverso una concatenazione di accordi - dal patto fondante o costituzionale ai singoli accordi fra privati - nel quadro di un unitario ordinamento giuridico, sia interno che internazionale.
Il diritto non nasce, cioè, nè da un'autorità esterna alla società - ordine dell'Autorità -, nè da una ragione astratta - diritto naturale -, bensì dalla volontà popolare attraverso il libero accordo, dando vita allo Stato democratico, unico e vero Stato di diritto, poichè esprime la volontà e l'etica reale di un popolo.
L'accordo è dunque "l'universale giuridico" , ossia l'essenza stessa del diritto, quale suo carattere intrinseco, corrispondendo al concetto di soluzione pacifica e concordata (non violenta o fraudolenta) di un conflitto o comunque di una questione di interessi comune a più soggetti (e quindi intersoggettivo: rapporto giuridico).
Per tale motivo, esso è la fonte principale e sostanzialmente l'unica del diritto internazionale, che è un ordinamento, tuttavia, ancora in via di formazione, perchè attualmente fondato essenzialmente su rapporti giuridici particolari fra soggetti determinati (accordi particolari) e, quindi, privo di una unitaria struttura rappresentativa degli interessi comuni, perfetta sul piano giuridico (quale potrebbe formarsi in base ad un accordo collettivo o generale di tutti gli Stati - fondato sul principio maggioritario dei consensi-, per assicurare non solo la pace, ma anche un equilibrato sviluppo economico mondiale), come nei singoli Stati democratici.
Stante l'innata essenza del suddetto carattere del diritto, che si rinviene nell'ordine fenomenico, risulta vano il tentativo di individuarne la fonte in una precostituita volontà umana (ossia in una norma fondamentale -o primaria- sulla produzione giuridica), sia pure tacita e consuetudinaria. L'accordo è, infatti, in ogni caso l'anello necessario iniziale e dinamico del fenomeno giuridico, il quale può legittimamente esprimersi (salvo sistemi giuridici, camuffati da forme dittatoriali od oligarchiche, di diritto od anche semplicemente di fatto) solo nel sistema giuridico democratico, basato sull'accordo, cioè sul principio della sovranità popolare.
La teoria dell'accordo, quale fondamento del diritto, nascente dal rapporto giuridico, nel quadro dell'unitario ordinamento giuridico interno od internazionale, identifica i principi generali del diritto, necessari per la soluzione dei maggiori odierni problemi sociali ed istituzionali, quali la pace, un nuovo ordine internazionale, fondato su un più equilibrato sviluppo economico mondiale, ed ordinamenti interni ed internazionali, realmente democratici.
Essa si presenta particolarmente utile nella attuale fase di riforme istituzionali, essendo preliminare ad esse la precisa individuazione dei principi generali del diritto, che regolano la costruzione di ogni ordinamento giuridico, sia statuale che internazionale.
Indi, l'opera approfondisce le applicazioni della teoria sui temi più attuali del diritto internazionale, quali l'Unione Europea, la Corte Penale Internazionale e l'O.N.U., oggetto di relazioni svolte in vari convegni, fornendo soluzioni nuove per un ordine internazionale multipolare, realmente democratico, nel contesto attuale della globalizzazione. In particolare, tale principio universale democratico consente di realizzare un ordinamento sovranazionale, federale, libero ed aperto, sia a livello europeo, che in prospettiva mondiale, senza sacrificare le singole identità nazionali e locali, sul modello dello Stato di diritto e democratico, che rappresenta storicamente ed anche giuridicamente, in base della teoria dell'accordo, il culmine dell'evoluzione giuridica.
Valentino De Nardo
Roma, 16 febbraio 2004
“Recensione pubblicata dall’avv. Giovanni Cipollone, Consigliere dell’Ordine degli Avvocati di Roma e Direttore della rivista “ Temi Romana”,sul Foro Romano n. 3 maggio-giugno 2004 ( Notiziario del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Roma)”
“L’Autore, noto per i suoi approfonditi studi soprattutto nel campo del diritto internazionale, approfondisce, mediante una accurata analisi, la teoria dell’accordo quale fondamento dello stato di diritto, nell’ambito di un nuovo ordinamento giuridico.
Trattasi di un’opera di grande pregio poichè fornisce soluzioni nuove per la creazione di un ordine internazionale multilaterale, realmente democratico, nel contesto attuale della globalizzazione, sia a livello europeo che in prospettiva mondiale.
Gli assetti costituzionali esaminati, che aborriscono totalmente la violenza, richiamano alla mente il “foedus pacificum” vagheggiato da Kant, ma l’Autore supera gli aspetti prettamente filosofici per affacciarsi in un panorama più vasto che prelude alla affermazione di principi giuridici applicabili in un vero Stato di diritto".
Giovanni Cipollone
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Valentino De Nardo
DEMOCRAZIA UNIVERSALE
LA TEORIA DELL'ACCORDO
Ediz. CEDAM - Padova
pagg. 296 - € 33,00
Il modello di Stato democratico, per realizzare una democrazia compiuta, non si deve fondare solo sulla rappresentanza popolare, attraverso elezioni a suffragio universale,sulla separazione dei poteri, e sul principio maggioritario dei suoi organi istituzionali di natura collegiale o collettiva, necessario per la nascita ed il funzionamento di ogni nuovo soggetto giuridico democratico, ma anche sul riconoscimento dei diritti innati e dei diritti quesiti (di cui il lavoro e la pensione, ne costituiscono i principali e più attuali esempi), in quanto la sovranità appartiene al popolo, non solo genericamente considerato nella totalità dei suoi componenti, ma anche concretamente nei singoli soggetti privati, che ne fanno parte, i quali sono sovrani nelle rispettive
sfere giuridiche nel quadro delle norme costituzionali, che li tutelano, non solo nei rapporti privatistici fra di loro, ma anche e soprattutto nei confronti dei pubblici poteri, per evitare la c.d. “tirannia o dittatura della maggioranza”, considerati i poteri di supremazia, di cui essi dispongono, ma sempre nei limiti previsti dalla Costituzione.
In tal modo vengono tutelati tutti i cittadini dai mutamenti dei Governi e quindi anche quelli espressi dalle minoranze parlamentari.
In caso contrario, il singolo cittadino sarebbe equiparato ad un suddito, soggetto agli interessi politici ed agli umori del momento delle maggioranze di governo, in spregio del principio della certezza del diritto , e, quindi, ad un regime autoritario e di fatto dittatoriale, scevro dai limiti della democrazia, fondata sulla Costituzione liberale repubblicana, che assicura il principio fondamentale democratico , per cui i pubblici poteri ed i singoli cittadini sono posti, nelle rispettive sfere giuridiche, su un piano di parità assoluta, in quanto sono entrambi soggetti alla legge e, principalmente, a quella suprema, dettata dalla Costituzione.
Il suddetto nuovo modello democratico consente, pertanto, di dare finalmente piena attuazione alla Parte I^ della Costituzione , che stabilisce che l’Italia è una Repubblica democratica, fondata sulla sovranità popolare, che riconosce e garantisce idiritti (diritti soggettivi e aspettative giuridiche) di tutti gli uomini , espressamente dichiarati inviolabili da parte dei pubblici poteri, nel quadro del contemporaneo Stato liberale e democratico.